Quarta settimana di Quaresima

📌 Scarica gli Avvisi Parrocchiali dal 22 al 28 marzo.

Domenica – Celebrazioni Eucaristiche in tv

ore 07.00: TV 2000 (canale 28) – Messa celebrata da Papa Francesco
ore 07.30: Tele Padre Pio (canale 145)
ore 08.30: TV 2000 (canale 28)
ore 10.00: Rete 4
ore 10.30: Bergamo TV (canale 17) – Messa celebrata dal Vescovo di Bergamo, Francesco Beschi
ore 11.00: RAI 1
ore 11.00: RAI 3 – Messa celebrata dall’Arcivescovo di Milano, Mario Delpini
ore 11.30: Tele Padre Pio (canale 145)
ore 18.00: Tele Padre Pio (canale 145)
ore 19.00: TV 2000 (canale 28)

Libretto delle preghiere

La copia cartacea del libretto di preghiera per le famiglie si può ritirare in Chiesa Parrocchiale.

Appuntamenti di preghiera in tv

Preghiera dei ragazzi delle elementari

Guarda il video che le catechiste hanno realizzato per tutti i ragazzi delle elementari.

Preghiera dei ragazzi delle medie

Guarda il video che le catechiste hanno realizzato per tutti i ragazzi delle medie.

Materiale per adolescenti e giovani

Vista la chiusura dei nostri Oratori e la sospensione di tutte le attività, desideriamo accompagnare giorno per giorno gli adolescenti e i giovani nel cammino di preparazione alla Pasqua. In Quaresima, la Parola di Dio ci raggiunge nella quotidianità nell’incontro con l’altro.
Per questo, saranno caricati sui canali social dell’Oratorio e sul sito delle “card”, una per giorno della settimana, per riflettere e meditare in questo cammino.

Riflessioni per adolescenti e giovani

Ogni volta che riceviamo un dono possiamo comportarci in due modi diversi: appropriarcene senza cura, perché disinteressati verso di esso e verso il prossimo oppure custodirlo, prendercene cura. Possiamo quindi essere indifferenti oppure responsabili e pieni di com-passione verso gli uomini e tutte le creature che ci circondano. Forse è soltanto così che possiamo iniziare a vederci chiaramente!

Spunti di riflessione
Che atteggiamento assumi verso ciò che ti circonda? Ti prendi cura del creato in tutte le sue forme (uomini, animali, piante…) oppure sei totalmente indifferente? E vista la situazione, stai curando e custodendo di più il rapporto con la tua famiglia e i tuoi cari?
In questa settimana prova a prenderti cura di qualcosa o di qualcuno che ti sta particolarmente a cuore.

Per riflettere

Il senso della crisi

di Pier Cesare Rivoltella, docente all’Università Cattolica di Milano e presidente del Cremit.

La peste, le epidemie, i flagelli come le carestie, nel mondo arcaico venivano letti come sintomi di una crisi essenziale. È essenziale quella crisi che colpisce una comunità e che minaccia di estinguerla. Così il contagio è la forma attraverso la quale il male si manifesta tra gli uomini e fa comprendere loro che qualcosa nel loro modo di vivere non funziona.

Per Girard, nella sua analisi del rapporto tra la violenza e il sacro, la crisi essenziale è una crisi di indistinzione. Se tutti desideriamo la stessa cosa, inevitabilmente prima o poi entreremo in conflitto per essa, fino a ucciderci. E quell’uccisione chiamerà altre uccisioni, finché non resterà nessuno.

Questi pensieri mi accompagnano in questa mattina di marzo, primo giorno di primavera. Ieri sera è morta una mia amica e collaboratrice: 56 anni non ancora compiuti. Stanotte la mamma di un mio caro amico e collega: asintomatica e di fatto isolata in casa da 14 giorni, alle 18.30 ha accusato fatica e difficoltà a respirare, sei ore più tardi cessava di respirare. Il virus ti raggiunge senza preavviso, ti sequestra, dichiara prima la tua morte rispetto agli affetti e poi decreta la tua mortebiologica. Non c’è conforto per chi muore e non c’è consolazione per chi resta.

Questa crisi, queste morti, questo male, al netto dell’emergenza, della necessità di attivarci nella nostra cittadinanza responsabile, dell’obbligo di far fronte alla sofferenza sanitaria e dei mercati, mi sembra ci suggerisca anche altro: ci invita a riflettere su quello che siamo, sulle nostre abitudini, sul poco rispetto che abbiamo per la vita.

La crisi essenziale. Il virus, il contagio, non è il segno di un destino crudele che ci si impone in ossequio a una cieca fatalità. È figlio della violenza cui abbiamo sottoposto la natura: correla con l’inquinamento, con la concentrazione di Pm10 nell’aria, con la depressione immunitaria causata dall’aria che respiriamo e dagli alimenti di cui ci nutriamo. La crisi essenziale chiede di pensare, di riflettere sulle conseguenze dei nostri comportamenti, sulle nostre responsabilità.

La crisi di indistinzione. Viviamo in società in cui tutti desideriamo le stesse cose, omologati dalla pressione del conformismo dei consumi, spinti dal principio di prestazione. Questo comporta che si viva all’insegna della velocità, anzi dell’accelerazione. Di corsa, sempre, con l’esperienza che il tempo non basti mai. La crisi ci costringe a fermarci, ci impone un rallentamento forzato, quasi come se ci venissero create le condizioni per recuperare il senso e il valore della lentezza.

L’esperienza del sequestro. Il virus ci sequestra in casa, ci sottrae forzosamente alle nostre amicizie, ci impedisce le abituali frequentazioni. Il virus sequestra i nostri cari che si sono ammalati, non ci consente di stare loro vicini, ci fa vivere con angoscia la possibilità di non vederli più vivi. Il virus sequestra anche le nostre emozioni, sollecita la produzione di cortisolo e adrenalina, alimenta l’ansia, il panico, la paura. La crisi ci aiuta, per sottrazione, a recuperare ilvalore delle relazioni e degli affetti: proprio nel momento in cui ne veniamo privati, ci diviene possibile di apprezzarne l’importanza e il sapore.

Rispetto per il mondo, capacità di soffermarsi e valore delle relazioni. È questa la lezione che dovremo dimostrare di aver imparato quando tutto sarà finito. Sappiamo che sarà difficile. Perché il male rimane ben radicato tra le pieghe della nostra esistenza. Chiudevo in questi giorni l’editoriale del numero speciale che la mia Rivista “EaS. Essere a Scuola” ha dedicato all’emergenza, con le parole che concludono La peste di Camus: «Ascoltando infatti le grida di esultanza che si levavano dalla città, Rieux si ricordava che quell’esultanza era sempre minacciata. Poiché sapeva quel che la folla in festa ignorava, e che si può leggere nei libri, cioè che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte, e che forse sarebbe venuto il giorno in cui, per disgrazia e monito agli uomini, la peste avrebbe svegliato i topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice».

Una città è felice quando non pensa, quando popola i centri commerciali distratta dal consumo, quando non si ferma, quando è schiava della propria leggerezza, quando respinge il pensiero della morte e si dimentica del valore delle cose.

L’astrazione e la verità

di Pier Cesare Rivoltella

Un topo morto in un corridoio. Poi un altro, molti, moltissimi topi morti, con una voglia rossa dipinta dal sangue sulla bocca. Qualcuno si chiede perché. Altri, i più, sono contenti: era ora che venisse-ro fuori e si potesse liberarsi di essi. Proprio uno di quelli che la pensano così accusa una febbre, vede comparire noduli gonfi e scuri su tutto il proprio corpo, sembra migliorare, poi muore. Ne seguiranno altri: dieci, trenta, trecento al giorno. Le autorità non vogliono che si pronunci il nome che però tutti ormai hanno in mente. Cercano di coprire, di contenere, di sdrammatizzare finché si può. Poi cedono. E le misure per la salute pubblica si susseguono, sempre più stringenti, mentre la città, chiusa nell’asse-dio che si è autoimposta, conosce la voglia della fuga, la paura, l’incoscienza di chi vive come se niente stesse accadendo.

È lo scenario che Albert Camus disegna ne La peste, lo straordinario romanzo del 1947 che il grande scrittore, drammaturgo e filosofo francese dedica al racconto del male (del Male?), del suo diffondersi, delle passioni che suscita e agita tra gli uomini. Orano come Codogno, come Vò Euganeo, come Nembro, come uno qualsiasi dei tanti luoghi del contagio. Un grande laboratorio antropologico che consente di studiare i comportamenti delle persone e che mette in luce il conflitto tra l’astrazione e la verità, come rivela nella prima parte del libro il dialogo cruciale tra Rieux, il medico che sopravviverà alla peste per raccontarla, e il giornalista Rambert, impegnato a lasciare la città a qualunque costo.

Fenomenologia dell’astrazione

L’astrazione allude al “si deve”, ai ragionamenti, alla logica della verbalizzazione e della chiacchiera contro la logica dei sentimenti e della vita. Ne è testimonianza la spropositata e contraddittoria produzione di discorsi che ha accompagnato e sta accompagnando l’emergenza. Penso in prima istanza ai discorsi dell’informazione. Come sempre in occasione delle crisi la macchina dell’informazione tende a garantire all’evento una copertura totale. E come sempre si rimane nel dubbio che in alcuni casi prevalga la logica di servizio o la ricerca dell’audience. L’effetto sul pubblico è no-to: la “sindrome dello scoiattolo”, chiuso in casa (questa volta non per scelta), impegnato ogni mezz’ora a verificare gli aggiornamenti. Gli esperti si avvicendano negli studi, si comincia a riconoscerli, li si chiama per nome. Il risultato è un’ipertrofia informativa che genera saturazione e alla fine produce disorientamento e disinformazione, da una parte alimenta l’ansia e dall’altra dispone alla rassegnazione o alla sottovalutazione. Accanto a questi discorsi “ufficiali”, giocano un ruolo rilevante i discorsi dei social. Vi si riconoscono alcune posture.

Anzitutto la postura ingenua: è la postura di chi dà credito alle fake e si accinge ad assumere vitamine per evitare il contagio, di chi alimenta le catene di S. Antonio, ma anche di chi si emoziona e partecipa con trasporto alle gioie e ai dolori degli altri attraverso i post, le storie, le immagini.

Vi è poi la postura critica: è quella di chi intenzionalmente prova a favorire la riflessione (anche attraverso l’arguzia, la battuta, il meme che sdrammatizza con l’ironia), offre spunti al pensiero, fornisce esempi di testimonianza; è questa, ad esempio, la postura di chi all’indomani del grande

esodo dal Nord, prima della “serrata” imposta dal Governo, lancia l’ashtag #iorestoqui, oppure del gruppo di giovani del Team Bota (tieni botta, tieni duro) che a Rimini si sono messi a disposizione di chi vive solo, per aiutarlo ad affrontare le piccole sfide di tutti i giorni.

Ancora, la postura idiota: lo dico nel senso etimologico della parola greca ‒ ιδιοτες ‒ di colui che è centrato su se stesso e che anche nel momento dell’emergenza, della precarietà, del bisogno non esita a ritagliare uno spazio per il proprio Ego. In queste settimane molti insegnanti, studiosi (o sedicenti tali) hanno giocato questa postura, come molti politici, incapaci di rassegnarsi a non strumentalizzare, non polemizzare, non perdere l’occasione per mettersi in evidenza: idioti, appunto.

Infine la postura cinica. È la postura di chi sa sempre tutto, di chi non si emoziona per niente, di chi vede complotti dappertutto e che non riesce a comprendere che la critica è costruttiva e non distruttiva. È la postura di chi di fronte alla scuola che si rimbocca le maniche e prova a lavorare a distanza la accusa di cedere al mercato e all’ideologia neoliberista che lo sostiene, ed è anche la postura di chi dice no, a prescindere, sempre, qualsiasi cosa si faccia.

Il risultato di questa discorsivizzazione imponente è che alla fine, sotto i discorsi, il mondo vero rischi di diventare favola, proprio come suggeriva Nietzsche, e che si perda di vista la realtà. È un primo grande tema di riflessione per gli insegnanti con le loro classi.

Forme della verità

La verità è l’altra grande istanza che il contagio porta in gioco. Si esprime in una gamma di vissuti che punteggiano la quotidianità: la condizione di esilio, l’esperienza della separazione, la solitudine, le relazioni di cui si ha nostalgia. Il tratto comune a tutti è che, per chi li sappia valorizzare, essi funzionano da esperienze fondamentali. Sono tali quelle esperienze che distillano l’essenziale lasciando venire a te-ma quel che conta nella vita. Un libro molto citato di Sherry Turkle, psicologa che da oltre due decenni si occupa di comunicazione mediata, si intitola Alone together. Allude, la Turkle (2011), alla condizione di separazione che i media digitali impongono anche quando si è fianco a fianco: seduti vicini, ciascuno sul proprio smartphone, si è in fondo da soli. In questi giorni l’esperienza è un’altra: essa consente di leggere diversamente quel titolo. Anche se da soli, ciascuno nella propria casa, si è in fondo insieme: è il filo delle comunicazioni in WhatsApp che tesse le nostre vite, sono gli eventi sincroni (in Skype, in Zoom, in Hangout…) che favoriscono l’incontro. Questa esperienza strana di socialità e relazione a suo modo consente la riscoperta dei volti e delle vo-ci, proprio nella separazione. Come scriveva Federico Schlegel: «Non è l’odio, come dicono i saggi, ma l’amore che separa gli esseri… Solo nella risposta del suo tu ogni io può sentire totalmente la sua infinità unità». La separazione ci restituisce lo sguardo dell’altro e attraverso il suo sguardo ci consente di riconoscerci, cosa che non avremmo potuto fare se non ci fossimo separati da noi stessi (Melchiorre, 1977). Scrive una mia studentessa, dopo la mia prima lezione in ambiente collaborativo sincrono (già, l’Università “a distanza”):

«Gentile prof. Rivoltella, volevo ringraziarla per la lezione di oggi: è stato come assaggiare un briciolo di normalità. Il riprendere le attività, anche se a distanza, mi ha fatto riflettere sull’importanza della scuola in ospedale e sulla necessità di ricreare questa esperienza anche per i più piccoli. Ho due figli e siamo via da Milano dal 23 con anche 2 nipoti: per loro (a parte il piccolo che va alla scuola dell’infanzia) l’unico contatto con la scuola (due in seconda e uno in quinta primaria) è diventa-to ricevere compiti da dover ricaricare eseguiti… solo il peggio insomma. Oggi è arrivato un messaggio attraverso il registro elettronico alla mia prima: non sa che sorriso! Devo inventarmi qualcosa, oltre alle videochiamate con le migliori amiche…Da quando ho ripreso l’università (ho terminato la magistrale di filosofia nel 2010) non lavoro più a scuola, ma vivendola da genitore ci penso spesso: spero che questo periodo faccia nascere la giusta nostalgia della scuola, un po’ come ci siamo detti tra compagni di corso dopo la sua lezione di oggi. Volevo solo ringraziarla, spero di non averla disturbata. Cordiali saluti».

Hartmut Rosa (2016) parlerebbe di risonanza. E risonanza sono anche le parole scritte sui container arrivati dalla Cina con mascherine e ventilatori polmonari al seguito della delegazione di medici specializzati nella lotta al virus: «Siamo onde dello stesso mare, rami dello stesso albero, fiori dello stesso giardino». Qui c’è un secondo grappolo di temi per gli insegnanti con le loro classi: il superamento dello stereotipo, sulla distanza che allontana, come sui cinesi; il pensiero posizionale, e cioè il sapersi mettere nei panni degli altri e guardare le cose dal loro punto di vista (Nussbaum, 2010); la cittadinanza come ascolto e relazione; il legame che la tecnologia può aiutare a costruire, o a ricostruire (Rivoltella, 2017). Occorrerà ricordarsi la lezione anche quando tutto sarà finito e saremo tornati alle nostre vite di sempre: «Ascoltando infatti le grida di esultanza che si levavano dalla città, Rieux si ricordava che quell’esultanza era sempre minacciata. Poiché sapeva quel che la folla in festa ignorava, e che si può leggere nei libri, cioè che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere da letto, nelle can-tine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte, e che forse sarebbe venuto il giorno in cui, per disgrazia e monito agli uomini, la peste avrebbe svegliato i topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice».

Riferimenti bibliografici

Melchiorre V. (1977). Metacritica dell’eros. Vita e Pensiero, Milano.
Nussbaum M. (2010). Non per profitto. Tr. it. Il Mulino, Bologna 2011.
Rivoltella P.C. (2017). Tecnologie di comunità. Scholé, Brescia.
Rosa H. (2016). Pedagogia della risonanza. Tr. it. a cura di F. Fiore, Scholé, Brescia 2020.
Turkle S. (2011). Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre di più dalla tecnologia, ma sempre meno dagli altri. Tr. it. a cura di S. Bourlot e L. Lilli, Codice, Torino 2012.

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